Parità salariale: a Brescia chimera o realtà?
Realizzato, su iniziativa della Commissione Pari Opportunità del Comune di Palazzo Loggia, il primo “Rapporto sulla parità occupazionale e salariale nella provincia di Brescia”
La Commissione Pari Opportunità del Comune di Brescia ha realizzato il primo “Rapporto sulla parità occupazionale e salariale nella provincia di Brescia”. Il documento – curato dalla professoressa Maria Laura Parisi dell’Università degli Studi di Brescia – rappresenta il primo studio di questo tipo condotto a livello provinciale, ed è nato per offrire una fotografia dettagliata, rigorosa e aggiornata delle disparità di genere nel lavoro e nelle retribuzioni nel contesto bresciano. Questa iniziativa si colloca nel solco dell’Indagine sull'occupazione femminile e maschile nelle imprese lombarde voluta da Regione Lombardia e dalla consigliera di parità regionale Annamaria Gandolfi. Per cambiare rotta, bisogna sapere da dove si parte: conoscere i dati è il primo passo per costruire strategie pubbliche efficaci e responsabili.L’analisi si focalizza sul contesto della provincia di Brescia, con un approfondimento particolare sulle imprese con sede legale o operativa nel territorio della città.
La provincia riveste una posizione di rilievo a livello economico nazionale. Emerge dai dati Istat (2023) per l’ultimo biennio (2022-2023) che, benché il tasso di occupazione totale in Lombardia sia complessivamente al di sopra del dato nazionale (per l’anno 2022 registra un tasso di occupazione per la fascia di età 15-64 pari al 68,2%, a fronte del 60,1% nazionale, e per l’anno 2023 pari al 69,3% rispetto al 61,5% nazionale), ci sono evidenti disparità di genere sui dati disaggregati per province. In particolare, il tasso di occupazione maschile regionale nel 2022 è stato pari al 75,8%, contro il 60,4% di quello femminile. Tale scostamento si registra anche per l’anno 2023 con la provincia di Brescia che resta fanalino di coda in Lombardia, con una percentuale pari al 56,2% (Istat, 2023). Il rapporto valuta la situazione occupazionale e salariale disaggregata a livello provinciale, ottenendo una mappatura puntuale del territorio. Attraverso l’analisi di oltre 1000 rapporti biennali redatti da imprese bresciane con più di 50 dipendenti, integrate con dati Istat, Inps e fonti europee, il rapporto mette a fuoco diversi punti critici nella provincia di Brescia.
Il divario di genere è un fenomeno che riguarda il mercato del lavoro italiano ed europeo e, in generale, è diffuso ampiamente nel resto del mondo. La provincia di Brescia non fa dunque eccezione. I dati occupazionali indicano che vi sono più uomini occupati che donne, anche se la distribuzione degli/delle occupati/e nel settore terziario è molto più simile tra i generi, addirittura con una media di donne lavoratrici più alta rispetto alla media degli uomini.
Nei settori primario e secondario il divario di genere è invece cospicuo. Guardando alla dimensione d’impresa, in media le donne occupate rappresentano il 35% della forza lavoro in ogni dimensione, quindi la percentuale degli uomini è pari al 65% (sempre dividendo le imprese per dimensione, questa ripartizione è praticamente identica per le imprese medio-piccole, medio-grandi e grandi). Le imprese molto grandi, che occupano più di 500 dipendenti, vedono una media del 54% di lavoratrici occupate e 46% di lavoratori occupati.
Dal punto di vista dei ruoli, la differenza tra il numero di uomini e donne a livello dirigenziale è indice di un divario che può essere causato dal cosiddetto soffitto di cristallo, cioè l’impossibilità delle donne di compiere progressi nella carriera fino a raggiungere ruoli apicali. Al livello Quadro corrisponde un divario di genere rovesciato, così come per gli Impiegati/e: il 53.3% del personale impiegato è femminile, mentre il 46.7% è maschile. Il divario massimo (non rovesciato) si ha per il livello Operai/e, con il 30.8% di personale femminile e il 69.2% di quello maschile.
Si noti che per il ruolo di Dirigente vi è un divario di genere (non rovesciato), in quanto il 43% delle posizioni è ricoperto da una donna, mentre il 57% da un uomo. La letteratura esistente afferma che, nelle posizioni di vertice, le donne sono sottorappresentate, perché vengono promosse meno spesso rispetto agli uomini, oppure sono disponibili ad accettare mansioni che non pagano in termini di carriera e monetari.
Il secondo aspetto del divario di genere, relativo alla diversità retributiva, caratterizza l’occupazione nella provincia e nella città di Brescia. Esso riguarda sia il salario di base sia le componenti accessorie del salario, con incidenza diversa a seconda del livello di inquadramento, del settore di attività economica e della dimensione dell'impresa. Questa evidenza è coerente con quanto trovato nella letteratura accademica esistente, che utilizza fonti di dati diverse per l’Italia, sia micro sia macroeconomiche, per verificare la presenza del divario e quantificarlo. Gli studi affermano che tra le cause di questo divario c’è la scelta, da parte delle donne, di ridurre le ore di lavoro o di utilizzare il lavoro part-time, il che abbassa il salario orario e conduce a una forma di discriminazione sul luogo di lavoro. Anche se la scelta di svolgere lavoro part-time è ambigua (molto spesso involontaria), ciò è dovuto a un’iniqua distribuzione del lavoro non pagato all'interno della famiglia, che porta spesso le donne a rinunciare al lavoro (in parte o in toto) a beneficio del partner. Altre cause determinanti del divario retributivo sono l’età e l’anzianità di servizio, che contribuiscono alla formazione del divario salariale ma non sono considerate nei rapporti biennali.
Le qualifiche o i livelli di inquadramento contribuiscono alla variabilità del divario retributivo di genere: esiste un divario nel salario di base che si aggira intorno al 16% in media, in tutti i livelli, ma risiede soprattutto nelle componenti accessorie, che arriva a toccare il 29%. All’interno delle componenti accessorie, vi sono pesi diversi a seconda del livello e del genere. Le imprese che hanno utilizzato la contrattazione territoriale e quella aziendale mostrano una notevole variabilità del gap retributivo.
L’analisi sui differenziali nei congedi ha messo in evidenza che la scelta di utilizzare il congedo parentale, oltre a quello obbligatorio di maternità e paternità, ha una connotazione “culturale” e cambia con le norme e gli usi sociali. Dai dati emerge che la probabilità di scegliere il congedo parentale per i padri lavoratori dipende dal settore di attività e dal livello di inquadramento, ma anche dalla scelta della partner che, in presenza di vincoli di bilancio familiare e divario salariale di genere, preferisce astenersi dal lavoro per ridurre le perdite di reddito. La letteratura economica dimostra, infatti, che le traiettorie di reddito e di carriera tra uomini e donne dopo la nascita del primo figlio o della prima figlia sono nettamente divergenti.
L’evidenza relativa alle imprese cittadine è in linea con i dati provinciali ed è coerente con la letteratura esistente. In particolare, si osserva un gender pay gap medio del 19% nel settore secondario e del 15% nel terziario, mentre il GPG scende all’aumentare della dimensione dell’impresa, con un gap nelle componenti accessorie che supera quello del monte retributivo.
Le policy aziendali che formalizzano la scelta di lavorare part-time oppure di conciliare il lavoro con esigenze della famiglia (i cosiddetti parental leaves), e in genere concedere maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro, possono aiutare positivamente il salario delle donne. Inoltre, incentivare lo sviluppo delle carriere e adottare un bilanciamento di genere nel management o nei vertici sono considerati modelli e pratiche che favoriscono un circolo virtuoso verso l’eguaglianza di genere nelle aziende, che, di conseguenza, migliorano le performance di produzione e crescita.
Conclusioni:
Dal punto di vista del policymaker, è necessario continuare a proporre incentivi monetari e temporali per fruire dei congedi parentali (in modo equo), fornire servizi di supporto ai genitori occupati (per es. la riduzione della retta dell’asilo nido), condurre campagne di informazione per creare una consapevolezza dei rischi che corrono le donne con lavoro frammentario e discontinuo, o ridotto, nel loro futuro (bassi salari, ridotte prospettive di carriera, skill-downgrading e mancato aggiornamento delle competenze, basse pensioni, aumentato rischio di povertà).