Dopo ogni notte c’è sempre un’alba che si prepara
Metti un informatico in Seminario, con il pallino per l’intelligenza artificiale e le sfide che questa pone. Stiamo parlando di don Nicola Penocchio, classe 1999, della parrocchia di Cailina. È entrato in Seminario a 18 anni, dopo aver concluso gli studi all’Itis, indirizzo informatico. Negli anni da seminarista ha prestato servizio nell’Unità pastorale del Savallese (I e II), a Gavardo (III e IV) e a Lovere (V). L’anno del diaconato l’ha visto in servizio a Castel Mella.
Come hai intuito che il sacerdozio poteva essere la tua strada?
La mia vocazione è nata in ambiente oratoriano, negli spazi delle parrocchie della mia Unità pastorale. Lì ho avuto la grazia di incontrare sacerdoti felici del ruolo che ricoprivano. È dal loro esempio che è nato il desiderio di vivere una vita piena, gioiosa. È stato a partire dagli anni dell’adolescenza, in terza e quarta superiore, che ho cominciato a interrogarmi se questo desiderio potesse trovare forma nell’essere prete. In tal senso, è stato fondamentale il dialogo con il mio curato di allora, che mi ha accompagnato lungo il percorso del discernimento, sino poi a giungere alla scelta di entrare in Seminario. All’inizio il mio procedere esistenziale assumeva atteggiamenti un po’ timidi. La forza l’ho trovata durante un’esperienza che ho fatto con i giovani della mia parrocchia, nel carcere minorile di Casal del Marmo a Roma. Lì ho conosciuto don Niccolò, il cappellano, che mi ha lasciato un messaggio illuminante: “Quando ci si ‘mette’ alla scuola del Vangelo, alla scuola dell’amore, non si perde mai tempo, ma lo si investe sempre”. Provocato dalla sua serenità e dal suo lasciarsi plasmare dal Vangelo, anche in un luogo dove vigono spesso sofferenza e povertà, ho trovato il coraggio di provare a “frequentare” quella stessa “scuola”.
L’essere cresciuto nel contesto dell’Unità pastorale ti è servito?
Sono cresciuto nell’Unità pastorale ed è in questa dimensione che ho vissuto il periodo adolescenziale al fianco di altri giovani. Penso di potermi definire figlio dell’Up. Per me, l’Unità pastorale è una dimensione familiare che mi ha aiutato a crescere. È stata un’esperienza arricchente: mi ha aiutato a riconoscere le fatiche del camminare insieme, ma anche il patrimonio esperienziale di questo percorso. Una ricchezza che ho avuto modo di ritrovare anche nelle visite del Vescovo in Seminario. In più di un’occasione, parlando del futuro della Chiesa bresciana, ha fatto riferimento alle parrocchie sorelle, alle Unità pastorali e alla bellezza di questa prospettiva.
Come hanno reagito i familiari alla tua scelta?
Non nascondo che, inizialmente, qualche difficoltà in famiglia c’è stata. Probabilmente, i miei genitori immaginavano un percorso diverso. Devo ammettere, e di questo sono immensamente grato, di avere visto la mia famiglia percorrere un cammino parallelo. Hanno conosciuto la realtà del Seminario, che è stata una casa, una famiglia. I miei familiari si sono lasciati coinvolgere e, oggi, sono contenti del mio percorso.
E, invece, gli amici?
Gli amici mi hanno subito incoraggiato. Sorpresi e incuriositi, mi sono stati vicini sin dai primi momenti. Hanno voluto conoscere anche loro la realtà del Seminario e, nel corso del tempo, posso dire che anche loro, in qualche modo, hanno compiuto un cammino, essendo al mio fianco sin dall’ammissione e, poi, in tutte le tappe che mi hanno portato alla vigilia dell’ordinazione presbiterale. Rispetto ai giovani che ho incontrato, posso dire di non aver mai nascosto la mia fragilità, al contrario, l’ho condivisa con loro, comprendendo che talune loro fatiche, anche rispetto alla fede, erano anche mie. Era una sorta di chiave che mi permetteva di camminare con loro.
Cosa hanno rappresentato, per te, gli anni del Seminario?
Sono stati anni fondamentali, mi hanno aiutato a crescere come uomo prima e come cristiano poi. Sono stati anni di scoperte, di presa di coscienza di avere, oltre a quelli biologici, altri fratelli che hanno camminato con me e con i quali ho sperimentato la bellezza della comunità. Sono stati anni di formazione, ma anche un tempo in cui sono nate e consolidate amicizie fraterne.
Ti sei mai trovato a chiederti: “Ma sto facendo la cosa giusta?”...
Come in ogni cammino, ci sono stati momenti di fatica. Comprendo che sono stati molto importanti: ho sperimentato sulla mia pelle che, dopo ogni notte, c’è sempre un’alba che si prepara.
Come ti senti davanti a quel “per sempre” che pronuncerai?
Nel mio cuore albergano tanti desideri e, non lo nascondo, anche qualche paura. Mi sento, però, accompagnato da tutta la Chiesa bresciana e questa consapevolezza mi dà coraggio.
Leone XIV, come Giovanni Paolo II, ha invitato i giovani a non avere paura. Che valore ha questo invito?
Le sue parole sono un invito a osare e a non avere paura di amare, a fare scelte nella vita, che possono sembrare controcorrente rispetto al mondo. Ma sono suonate anche come un invito a non avere paura di innamorarsi di Cristo, anche se questo significa “convertire” dei pezzi della tua persona e della tua storia, e a non aver paura di testimoniare Cristo, perché il linguaggio della fede è promettente per la vita e per la felicità.
