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11 feb 2015 00:00

Ancora, l'ennesima volta

Oltre 300 migranti sarebbero morti nel Canale di Sicilia. Noi che dimentichiamo in fretta, forse in qualche giorno, scorderemo anche questi morti. In fondo non sono “vicini”, non sono “nostri”, ma quelli di un continente che sentiamo troppo e fastidiosamente ingombrante e capace di scardinare i nostri fragili equilibri sociali.

Il Mediterraneo avrebbe inghiottito nei giorni scorsi oltre 300 migranti. Questo, probabilmente, il bilancio dell’ultima tragedia nel Canale di Sicilia. A raccontarlo sono stati nove superstiti raccolti da un mercantile italiano e giunti a Lampedusa con una motovedetta della Guardia Costiera. Le loro testimonianze sono state raccolte e riferite da Carlotta Sami dell’Unhcr e da Flavio Di Giacomo, portavoce in Italia dell’Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni.

I migranti si trovavano su alcuni gommoni travolti dalle onde del mare in tempesta: le imbarcazioni ritrovate, al momento, sono state tre, ma, secondo quanto riferito dai sopravvissuti, sarebbe naufragato anche un quarto gommone. Le persone partite sarebbero state 420. Si tratta di una delle più grandi tragedie dell’immigrazione nel Canale di Sicilia. Il 3 ottobre del 2013, nel naufragio di un peschereccio salpato dalla Libia, a poche miglia da Lampedusa, morirono 366 persone.

I gommoni avrebbero fatto naufragio lunedì pomeriggio, tra le 15 e le 16, dopo essere stati capovolti dalle onde del mare forza 8. “Da alcune settimane – hanno raccontato – eravamo in 460 ammassati in un campo vicino Tripoli in attesa di partire. Sabato scorso i miliziani ci hanno detto di prepararci e ci hanno trasferito a Garbouli, una spiaggia non lontano dalla capitale libica. Eravano circa 430, distribuiti su quattro gommoni con motori da 40 cavalli e con una decina di taniche di carburante”. Così due dei nove superstiti raccontano di avere pagato per la traversata 1000 dinari, circa 650 euro, ma soprattutto rivelano: “Ci hanno assicurato che le condizioni del mare erano buone, ma in ogni caso nessuno avrebbe potuto rifiutarsi o tornare indietro: siamo stati costretti a forza a imbarcarci sotto la minaccia delle armi”.

Violenza, disperazione, sfruttamento si mescolano ancora una volta nell’ennesima tragedia dell’immigrazione. Ancora una volta l’animo si riempie di sdegno, desolazione, incertezza su come reagire e prevenire il male assoluto delle troppe morti nel Mediterraneo. Ancora una volta si accenderanno le polemiche politiche, le valutazioni sull’efficacia, del soccorso ai profughi, di Triton, la nuova missione europea che ha preso il posto dell’operazione italiana Mare Nostrum. Ancora si chiederà all’Europa maggiore impegno e un’adeguata politica che, a oggi, continua a dibattersi tra teorici del soccorso a oltranza e propugnatori del respingimento a ogni costo.

Ancora una volta si eleveranno voci pietose a chiedere preghiera, solidarietà e accoglienza. Tra queste quella di papa Francesco si è già resa presente, come anche quella di mons. Francesco Montenegro che solo qualche settimana fa è stato a Brescia e ci ha fatto sentire vive e vibranti le voci e le storie di questi disperati. Ancora sarà doveroso richiamare tutti alla responsabilità, alla competenza, all’impegno, alla salvaguardia di ogni vita umana.

Noi che dimentichiamo in fretta, forse in qualche giorno scorderemo anche questi morti. In fondo non sono “vicini”, non sono “nostri”, ma quelli di un continente che sentiamo troppo e fastidiosamente ingombrante e capace di scardinare i nostri fragili equilibri sociali. Se poi il mare non li restituirà, ne perderemo la memoria ancora, e per l’ennesima volta, più in fretta, ci metteremo il cuore in pace.

11 feb 2015 00:00