Cura e tenerezza
La tenerezza è una condizione per dare alla cura lo stile che la deve caratterizzare: non può essere solo un atto tecnico, per quanto appropriato, né un atto di generosità razionale, per quanto utile, ma un momento nel quale due realtà umane si incontrano e cercano di capirsi. Solo con la tenerezza la comprensione è completa, perché permette di superare eventuali barriere; una tenerezza reciproca, perché la cura per essere efficace deve suscitare da parte di chi è aiutato un sentimento tenero di gratitudine verso chi cura. Un sentimento che capisce e perdona; osserva gli atti di chi assiste con curiosità e attenzione, che non devono causare allontanamenti, ma permettono anche di capire che chi dona, talvolta, lo può fare solo con sacrificio. La tenerezza è stata interpretata da Albert Camus: “Un mondo senza amore è un mondo morto, e giunge sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio, per reclamare invece il volto di un essere umano, e il cuore meraviglioso della tenerezza”.
Le parole del grande scrittore descrivono la tenerezza espressa da un volto; nella cura, infatti, giocano un ruolo importante il sorriso, l’intensità di uno sguardo, l’abbraccio. Un volto severo non è in grado di esprimere tenerezza, che non richiede necessariamente parole; il silenzio può essere espressione di tenerezza. Due silenzi, quello di chi cura e quello di chi riceve le cure, quando si incontrano costruiscono un mondo nel quale passano pensieri di vicinanza, di comprensione del dolore e di gioia. Nella cura, talvolta, il silenzio parla più di quanto siano capaci le parole. La tenerezza diventa un atteggiamento necessario anche nel momento delle emergenze, quando verifichiamo, spesso con improvvisa drammaticità, la nostra vulnerabilità, il dolore che non abbandona e abbatte la solitudine. Può essere indotta dal volto di un bambino o di un vecchio che piange; ad ogni età viene il tempo del desiderio di tenerezza da ricevere e da donare. Si può esprimere con il linguaggio della preghiera; la cui richiesta di aiuto deve essere accompagnata dalla tenerezza, perché solo così esprime la capacità di affidare al Signore quello che si è vissuto vicino alla difficoltà e alle crisi di chi si vuole curare. La preghiera è un’espressione della tenerezza verso una persona, le cui difficoltà sono comprese razionalmente, ma trovano spazio ancor più se lette attraverso il sentire della tenerezza, che raggiunge livelli intensissimi nel momento della cura di chi muore, quando il dolore di chi resta induce una vicinanza nel presente, ma allo stesso tempo è impegno per il futuro, quando è accompagnato dalla fede. La tenerezza verso chi non c’è più resta viva si trasferisce anche su chi gli è stato vicino, permette di costruire un ponte che il tempo non interrompe. La tenerezza si esprime, anzi è in grado di raggiungere, livelli più intensi quando è rivolta a chi vive in situazioni particolarmente critiche, chi è ricoverato in ospedale o vive in una Rsa. Quanto bisogno di tenerezza vi è nelle stanze degli ospedali: chi vi lavora con competenza e sensibilità comprende “naturalmente” che la tenerezza deve accompagnare gli atti di assistenza verso i malati. È indispensabile, un dovere, quando si osserva il volto sperduto di un malato, avvolto nella sua solitudine. Dobbiamo enorme gratitudine a chi presta cure accompagnate dalla tenerezza, perché testimoni concreti della capacità umana di rispondere al sentire doloroso di chi soffre. La tenerezza trova posto anche nella cura degli ospiti delle strutture residenziali. Scrive Christian Bobin: “Sei o sette anziani seduti in poltrona di fronte al muro: ho imparato ad amare questa visione, sempre la stessa, all’apertura delle porte dell’ascensore. Provo gioia a ritrovarli, a stringer loro la mano e ad ascoltarli mentre mi dicono cose oscure”.
Una tenerezza che esprime il massimo della relazione ed è un tentativo di dare senso alla vita di persone che forse non riceverebbero mai una stretta di mano. La tenerezza supera le barriere indotte dall’abitudine, dalla vita che si piega su se stessa, dal prevalere dell’ordine sulla espressione, anche se talvolta apparentemente confusa, dell’amore.