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09 giu 2016 00:00

I giovani preti sono di tutti noi

Lì'editoriale del n° 23 di "Voce" è di don Gabriele Filippini

Clericalismo puro! Non vi sembra di esagerare? Sono le parole di un caro amico, laico, onesto e buono. Le pronunciò dando un’occhiata ad una serie di pubblicazioni parrocchiali raccolte da una istituzione bresciana: fascicoli e numeri unici dedicati ad ingressi o addii di parroci, messe d’argento e d’oro, trasferimenti di curati, ecc.

Quelle parole potrebbero toccare anche le ordinazioni di nove giovani sacerdoti, ampiamente fatti conoscere dal magazine del settimanale diocesano, da bollettini e da fiammeggianti manifesti affissi in tutte le parrocchie.
A ben pensarci, però, clericalismo non è. Per tre semplici ragioni.
Prima di tutto perché quando un giovane compaesano diventa prete non è paragonabile a quello che diventa medico, ingegnere, avvocato...o apre una attività di parrucchiere. Si percepisce che prete si diventa non solo per scelta personale ma perché si è parte di una storia viva comunitaria fatta di fede, operosità, tradizioni, conquiste, sofferenze e gioie. In poche parole: in un paese tutti (anche chi è religiosamente lontano) capiscono che quel giovane è frutto di un albero che ha radici profonde, è figlio di una comunità che ha una identità storica ben precisa, è una persona prodotta da una serie di relazioni, incontri, fatti, circostanze per le quali si avverte che quel prete è stato generato da una coralità di esistenze e da una molteplicità di volti dei quali ci si sente parte. In una comunità parrocchiale tutti possono dire di un novello prete: un po’ è anche mio.

In secondo luogo, praticanti e non praticanti sono accomunati da un altra considerazione di fronte a giovinezze destinate a rincalzare preti che per anzianità lasciano posti vuoti. Semplicemente perché il posto del prete è uno di quelli ritenuto fondamentale non solo dal punto di vista dottrinale ma anche sociale. In un paese parroci, curati, cappellani sono sempre stati una presenza significativa. Riveriti spesso anche da coloro che potevano a buona ragione essere detti avversari politici.

I preti nei nostri paesi hanno sempre costituito una compagine di operatori di misericordia, in passato consistente in opere di promozione sociale, oggi esercitata come cura delle ferite del cuore dell’uomo. Ma sempre di misericordia si tratta.

Infine ben vengano i preti in questo nostro tempo che ha cancellato la trascendenza e ora vive nel terrore della morte come ultimo atto e nel disimpegno più distruttivo proprio per dimenticare che nulla siamo e al nulla ritorniamo. La parte di umanità più pensosa sa che senza una risposta alle domande ultime non si vive bene. E quell’uomo che continua ad annunciare la vita eterna ci è necessario. Ci deve essere simpatico anche quando lui, per carattere, simpatico non è. Lo scrittore milanese Luigi Santucci diceva acutamente che per tutti viene il giorno della grande domanda. “Quando – sono parole sue – qualcuno uscirà da casa nostra per cercare un prete tra la folla e i tram (...) Un prete qualsiasi anche sconosciuto. “Cocchiere, cocchiere, quanto mi prende per portare in Paradiso mio padre, mio marito, mio zio, il mio padrone? Non prendo nulla. Basta che dica una piccola preghiera. Dove si trova? E si infilerà nero su per le scale”. Queste sono ragioni molto umane ma sufficienti per far festa per i nuovi preti, come del resto la si fa per il nuovo Vescovo bresciano eletto a Mantova. Non è questione di clericalismo, ma piuttosto la presa di coscienza di avere radici e identità, basi sicure per rinnovati slanci verso il futuro. (Gabriele Filippini)
09 giu 2016 00:00