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di ADRIANA POZZI 12 feb 2015 00:00

Il senso dell'ecumenismo

L’impegno per l’unità dei cristiani non è una semplice attività, tra le tante, che le chiese possono proporre ai loro fedeli

Si è da poco conclusa la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e forse qualcuno si sarà domandato perché continuare a celebrarla se, anno dopo anno, il cammino ecumenico non sembra procedere e se le posizioni delle Chiese, pur con grande rispetto e amicizia reciproci e gesti anche significativi, non paiono cambiare. Davanti a queste comprensibili obiezioni va ribadito che l’impegno per l’unità dei cristiani non è una semplice attività, tra le tante, che le chiese possono proporre ai loro fedeli e neppure una esigenza pastorale, ma è, in primo luogo, l’obbedienza alla parola di Gesù che, prima della sua passione, prega il Padre perché i suoi discepoli conservino l’unità.

Si tratta cioè di continuare e rafforzare, con la nostra preghiera costante e fiduciosa, la preghiera di Gesù nella convinzione, che abbiamo più volte ripetuto, che senza l’azione dello Spirito noi uomini non possiamo fare nulla. Celebrare ogni anno la Settimana di preghiera per l’unità non deve essere perciò lo stanco ripetersi di un rito a cui ormai siamo abituati, ma l’occasione per scoprire ogni volta qualcosa di nuovo. Ogni anno, infatti, cambia il tema della Settimana, proposto ed elaborato da comunità cristiane di diverse nazioni: solo questo fatto rende ogni Settimana unica e diversa da tutte le altre e offre, di anno in anno, la possibilità di avvicinarsi a sensibilità religiose differenti e di aprirci agli altri, per ritrovare nelle indicazioni e nei suggerimenti offerti, la consapevolezza che nel cammino ecumenico, come in tante altre esperienze, spesso non sono il darsi da fare, l’attivismo, le azioni concrete che portano frutti, ma il fidarsi dello Spirito e il saper attendere con pazienza e speranza.

Il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, in occasione della Settimana 2015, ha detto, citando un’espressione di Sant’Agostino, che tutti i cristiani devono sentirsi “mendicanti di Dio” e avere il coraggio di ammettere la propria povertà rispetto all’ azione di Dio: e questo, ha detto ancora, lo può fare solo la preghiera che resta “anche oggi il segno distintivo della ricerca ecumenica dell’unità”. Pregare perciò è il primo e irrinunciabile impegno di cui non stancarsi mai perché il cammino continui e non si fermi davanti alle difficoltà dovute alla fragilità degli uomini e si rafforzi quell’ecumenismo spirituale che anche il beato Paolo VI ha indicato come la dimensione principale e più importante.
ADRIANA POZZI 12 feb 2015 00:00