La cura degli anziani soli
Il vescovo Pierantonio Tremolada, in una recente intervista, ha richiamato l’attenzione delle comunità sulla sofferenza degli anziani soli. Ha detto: “In ogni parrocchia si dovrà fare una mappatura degli anziani soli. Sono moltissimi, ma troppo spesso non lo sappiamo; per varie ragioni loro non chiedono aiuto. Per questo io dico: andiamo noi nelle loro case”. Grazie, mons. Tremolada, perché in poche battute ha riassunto l’atteggiamo di cura che dovremmo assumere nei riguardi dell’anziano solo. D’altra parte… i maestri sono maestri! Seguendo le parole del Vescovo, ogni comunità (cristiana o no) deve per prima cosa conoscere la realtà, in modo da affrontarla adeguatamente rispetto ai numeri e alle diverse situazioni. Non è compito facile, perché spesso le solitudini si nascondono nelle pieghe della società, non hanno rapporti con i vicini, non frequentano i luoghi di incontro (anche l’accesso ai negozi alimentari è frettoloso e silenzioso). Sarebbe, quindi, necessario che gruppi di volenterosi si dividessero il territorio di riferimento e andassero di casa in casa. Mi rendo conto che si tratta di un lavoro pesante e incerto, però non vi sono alternative.
Il Vescovo nell’intervista giustamente enfatizza l’ampiezza del problema ed anche il fatto che frequentemente la solitudine non ha voce, sia perché gli anziani raramente chiedono aiuto, sia perché anche il loro flebile grido di dolore spesso non raggiunge le orecchie di chi dovrebbe sentire. Infine, il nostro Vescovo indica il metodo di lavoro per affrontare la solitudine: andare a trovarla dove si annida, nelle case. Anche questa è un’indicazione concreta, faticosa, ma l’unica che riesce realmente a superare le barriere. Una volta avvicinata la persona sola, è necessario analizzarne con attenzione la condizione per iniziare un accompagnamento non sporadico, che deve durare. Il tempo, infatti, plasma la vita di ciascuno in modo assolutamente diverso per ogni individuo; qualsiasi considerazione banale, quindi, sui “cari vecchietti” tutti uguali, è un errore, e non apre alcuna porta nel cuore e nel cervello dell’anziano che si desidera accompagnare. E’ un azione di avvicinamento prudente, caratterizzata più dal silenzio e dall’ascolto che da parole, per quanto affettuose. La prima caratteristica di una cura è appunto il silenzio, esercitato con pazienza, attenzione, partecipazione, serenità. L’interlocutore, che prima dell’incontro aveva avuto pochissime occasioni di dialogo, vuole far sapere la sua fatica di vivere, le sue difficoltà, le delusioni, le speranze. Solo dopo averle ascoltate, senza fretta, si può iniziare a dare risposte ed eventualmente consigli, senza pretendere di essere seguiti nelle eventuali indicazioni. Il silenzio non deve essere la caratteristica solo del primo incontro, ma un atteggiamento che caratterizza ogni successivo contatto. La donna e l’uomo anziani sono uno scrigno che si apre lentamente.
Se il silenzio è l’atteggiamento di fondo di ogni incontro, sono necessarie anche altre modalità di comportamento per superare il muro costruito da una lunga solitudine. La gentilezza è premessa indispensabile; deve andare assieme alla freschezza (mai prediche noiose, indicazioni pesanti, suggerimenti come se l’interessato fosse ancora sui banchi di scuola), alla disponibilità a seguire l’anziano sulle strade che lui delinea per il colloquio, e quindi la pazienza. La permalosità è l’atteggiamento più negativo; se un volonteroso non è disponibile a sentirsi in qualche modo poco valorizzato, è bene che non si impegni in atti di cura. La donazione del tempo non sempre trova risposta immediata; la certezza di compiere atti utili permette, però, di superare anche momenti difficili. La cura dell’altro, come abbiamo scritto in questi articoli, non è mai compito facile.
@Foto Siciliani-Gennari/SIR