La cura e la bontà
La bontà non è mai troppa nell’atto di cura, perché sa essere equilibrata, non si adira, è dolce, si impegna a capire l’altro senza eccedere e sa perdonare. La bontà affronta senza ansia le cure più difficili: quelle in ambito medico e quelle caratterizzate dalla vicinanza e dall’accompagnamento. Infatti sa che, per essere utili agli altri, bisogna essere capaci di sacrifici, che la bontà rende più lievi. Il medico buono si impegna nella cura senza farsi dominare dalla tristezza per eventuali fallimenti; la bontà dell’animo non vuole scaricare su altri le responsabilità di possibili crisi, anche perché è fiduciosa e non teme il futuro. La bontà è leggera, è lieta, genera cure serene, non è mai noiosa. Guai ai predicatori, quelli che ammantano la cura di retorica; così perde la sua luminosità che illumina chi la riceve. La cura è espressione della bontà. Non esiste cura senza bontà. Questa si fonda su alcune caratteristiche: infatti, l’occhio della persona buona è predisposto a vedere senza difficoltà dove si nascondono il dolore, la fragilità e la solitudine. Cerca una risposta, senza giudicare. L’orecchio della persona buona sente le espressioni verbali e i silenzi di chi ha bisogno di aiuto e predispone risposte adeguate. La mano della persona buona, anche se apparentemente indurita dalle fatiche della vita, è ricca di “sensori naturali”, per comprendere le reazioni di un corpo che soffre, dietro il quale si nasconde, oltre a quella somatica, anche la sofferenza della psiche. La persona buona non ha bisogno di essere stimolata per capire dove si nasconde il bisogno di cura. Essere buoni è virtù personale che si diffonde e partecipa a costruire una comunità curante. La bontà è modesta, ma non silenziosa; il mondo ha bisogno di cure efficaci, che siano allo stesso tempo esempi che si diffondono. La bontà, infatti, suscita talvolta invidie, incomprensioni (“come fa ad essere così buono?”), ma ancora di più ammirazione ed emulazione. La bontà stimola il coraggio a compiere azioni di cura in condizioni delicate, quando molti inducono a ritenere inutile l’impegno verso chi non vuole essere curato. La bontà impone alla cura di essere colta, specifica, mai generica, che capisce i tempi dell’atto di cura; talvolta la domanda è confusa, complessa, introversa e solo una forte preparazione (sensibilità e cultura) permette di dare risposte soddisfacenti, che arrivano al cervello e al cuore di chi soffre. La cura buona è dolce con chi è povero, talvolta nemmeno in grado di capire le cure, ma l’abisso della sofferenza richiede un carico di bontà che permette di capire al di là dei linguaggi verbali.
Il nostro Vescovo, in occasione della festa dei Santi Patroni Faustino e Giovita, ha pronunciato parole di alto valore sulla bontà. Ha espresso tre manifestazioni: “La cura affettuosa per chi è ferito nel corpo e nella mente; il perdono e il desiderio di riscatto per chi sbaglia e offende; la pazienza e la benevolenza per chi non è ‘all’altezza’; la bontà risponde con la gratitudine e la lode per il bene ricevuto, con l’interiore soddisfazione per il bene compiuto, con la gioia e la letizia per il bene diffuso e riconosciuto. La bontà è uno slancio del cuore che impegna seriamente sul piano dell’azione: è coraggiosa, tenace, creativa, conosce l’empatia e l’affetto e non si ferma di fronte al sacrifico”. Sono parole bellissime, che esprimono lo stile della cura e indicano un percorso. Infatti, la cura senza bontà rischia di diventare meccanica, poco rispettosa della libertà di chi la riceve, effimera. Solo la bontà induce la cura ad essere perseverante, a non rinunciare di fronte alle difficoltà e ai fallimenti. Chi riceve una cura vive bene quando percepisce la fedeltà di chi la fornisce: guarda al futuro senza la paura della solitudine, timore invasivo e angosciante.
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