La cura della disperazione
La disperazione nega la vita, rifiuta l’aiuto, vive nella solitudine. Può essere curata? Quando è determinata da un evento clinicamente rilevante, come una depressione, le psicoterapie e le terapie farmacologiche hanno il ruolo principale. Però non sempre si manifesta un evento psicopatologico dietro al dolore, condizione che rende impossibile guardare alla propria vita e a quella dell’altro con l’occhio sereno, in grado di cogliere il bene e il male. La cura è prima di tutto vicinanza silenziosa, che mostra con il volto e con le dinamiche del corpo un’intensa partecipazione. Le parole, talvolta, nulla aggiungono ad un rapporto già instaurato. Tuttavia, se la vicinanza silenziosa ha tempi lunghi, non deve far trasparire impazienza, delusione, progressiva riduzione dell’intensità del rapporto. Anche il silenzio lungo esprime un linguaggio di cura. Ma la disperazione pretende di più, una vicinanza intensa fatta di una parola che consola, di una carezza che avvicina, di un sorriso tenue. In questi giorni siamo stati colpiti dalla scelta delle gemelle Kessler. Nulla sappiamo di una scelta indotta da una vita lunga che si andava spegnendo. Nulla sappiamo dei movimenti del cuore, della fatica di vivere, di due persone cariche di anni, passate dalla fuga dal comunismo ai lustrini del grande successo, alla lenta decadenza e alla definitiva solitudine. Però sappiamo di un dolore senza cura, che le Kessler cercavano di lenire con il delicato, generoso e accurato impegno programmatorio per indirizzare la loro eredità.
Forse, senza esserne consce, cercavano di organizzare l’unico potere relazionale che era loro rimasto, l’eredità. Altri così avrebbero potuto fruire, nella disperazione, dei supporti che a loro erano mancati. Nell’“ora che non ha più sorelle” come scrive Eugenio Borgna, forse viveva in loro l’impegno a far vivere la “sorella generosità”, che però non ha avuto sufficiente forza contro la disperazione. Christian Bobin scrive: “C’è un istante in cui la morte ha tutte le sue carte e butta in un sol colpo i quattro assi sul tavolo. Nessuna parola al mondo che sia, in quel momento, all’altezza del nostro dolore”. Sembra negare la possibilità di una cura umana della disperazione; però aggiunge la sua speranza in un’altra cura: “Nell’istante terribile nel quale non c’è più nulla da credere o da sperare – non più aria nè porte – Tu sorgi”. Per chi ha la forza (sì, la forza che permette di affrontare le delusioni e la disperazione) di credere come Bobin, vi è un lenimento efficace alla disperazione, ma noi? La cura che possiamo dare deve essere carica di gentilezza, come scrive Borgna: “Le parole fragili e gentili non le troveremo mai se non richiamandoci alla sensibilità, alla logica del cuore, e all’immedesimazione nella vita degli altri”. Il grande psichiatra sostiene che la gentilezza non è una dote effimera, un modo temporaneo di esprimere la cura, ma la modalità che scaturisce quasi automatica dalla scelta di guardare nel profondo l’obiettivo umano della nostra vicinanza, attuando l’accompagnamento e l’impegno per il lenimento del dolore.
La cura è in grado di intuire, con la mente e con il cuore, quello che la disperazione talvolta non riesce a dire. Si deve guardare alle tenebre degli occhi, al sorriso assente, al silenzio: nascondono il dolore, che chi vuole curare deve capire, per costruire con impegno un percorso di vicinanza e di lenimento. E quando compare la parola, allora sono espressioni che descrivono la disperazione: io sono una cosa che non appartiene a nessuno, una cosa che nessuno ama… A questo punto, la cura deve dirottarsi con determinazione verso ogni possibile manifestazione d’amore, quella che manca e che viene disperatamente richiesta. Vecchioni recentemente, parlando di voler rivedere il figlio Arrigo, morto tragicamente, afferma: “In qualche modo vorrei ancora avere a che fare con le cose modeste, umili, anche brutte, anche schifose della terra. Mi piace poco essere felice in paradiso”. Non è una dichiarazione di ateismo, ma di fiducia nella capacità della cura di rendere vivibile la vita difficile, anche quando le tragedie sembrano toglierle ogni spazio.