La storia si ripete nel bene e nel male
Sono diventate intollerabili le narrazioni di guerra che ci arrivano da ogni parte, intollerabili perché ormai di alcuni Paesi e di alcuni popoli restano solo macerie e brandelli di morte, ma soprattutto perché dietro ogni colpo di cannone, ogni bomba, ogni casa distrutta, ogni strada interrotta, c’è una persona come me, che potrebbe essere qui a scrivere questo articolo e io là, a morire di paura, di dolore, di rabbia, di fame, di solitudine, di odio. Mentre quotidianamente questi scenari di orrore mi passano davanti agli occhi e mi lacerano dentro, mi è capitato di leggere il libro “La bussola del cuore” di don Giorgio Comini, un’occasione, se ce ne fosse stato bisogno, per comprendere un po’ di più cosa significhi essere in guerra, combattere o essere tra quelli che, a casa, vivono nella miseria, nella paura di morire sotto le bombe o di essere raggiunti da cattive notizie. Non è stato per nulla difficile – purtroppo! – lasciarmi coinvolgere dal racconto, in particolare dalle descrizioni degli scenari bellici, delle armi (il tristemente famoso cannone Maciste), delle trincee, degli ospedali da campo, delle singole battaglie, delle vittorie e delle ritirate, non, come in passato, da studente su un testo di storia, ma come partecipe dello strazio dei miei fratelli e sorelle che, oggi, vivono le stesse orribili esperienze a poche centinaia di chilometri da casa mia. Il libro narra della storia d’amore dei nonni dell’autore, Angela e Camillo, nel contesto della Grande Guerra: lui ferito nel corpo e nell’anima sul fronte del Carso e lei a Nave, in bilico tra l’angoscia di saperlo disperso e la speranza di riabbracciarlo, sostenuta da una fede profonda e da una comunità che non la lascia sola.
Davanti alle migliaia di persone coinvolte in quella guerra, il libro, come tante altre testimonianze di sopravvissuti, offre uno spaccato di vicende e di affetti di un piccolo paese del Bresciano e dei suoi abitanti, agli inizi del ‘900. Non a caso, in un clima di odio, il filo conduttore della storia, tramandata con sobrie parole di generazione in generazione, è l’amore tra due giovani in una società in cui la vita di tutti ruota attorno al campanile e il prete è il punto di riferimento per le questioni più importanti, siano esse legate alla fede oppure alla morale, intesa come la vita che si conviene in una società quasi interamente cristiana. Siamo, oggi, molto lontani sia cronologicamente sia contestualmente da quel mondo, ma la lettura del libro mi ha suggerito uno strano accostamento… tra un qualsiasi paesello dell’Italia della Prima guerra mondiale e la comunità cattolica della parrocchia di Gaza, che ha trovato rifugio nella chiesa colpita dall’attacco israeliano.
È l’esperienza di un piccolo numero di persone che, in nome di una stessa fede, si fa forte della propria identità, delle relazioni improntate alla carità, di un legame consanguineo con il Dio in cui credono, del comune destino della terra in cui abitano, per sopravvivere al drammatico genocidio di cui, insieme con fratelli e sorelle di altre confessioni, sono vittime. Sono il prete Gabriel Romanelli, il vescovo Pierbattista Pizzaballa, il papa Leone XIV, persone con un ruolo, un nome eun cognome, a esporsi, essere feriti, soccorrere, denunciare e scongiurare la pace per tutti, senza schieramenti religiosi, discorsi politici o scelte di comodo. Lo stesso hanno fatto in passato tante luminose figure che, in silenzio e nell’anonimato, hanno curato ferite, ricucito legami, salvato vite, come il vecchio parroco di Nave, don Marco Pea, ha fatto per la sua comunità. Nel solco di questa tradizione, il grido che chiede pace diventa responsabilità e impegno di tutti, nessuno escluso, a difesa di ogni singola vita coinvolta nell’assurdità della guerra. Di ogni guerra.