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di MASSIMO VENTURELLI 07 dic 2020 12:58

Risposte cercate nel nome della carità

Don Raffaele Licini, ritratto nella foto in occasione dell’udienza che papa Francesco concesse nel 2013 alla cooperativa sociale “Ai Rucc e dintorni” per i 30 di fondazione, oggi parroco a San Benedetto in città, è il sacerdote a cui si deve l’inizio di un’altra storia, che si colloca nel solco di quanto fatto tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso da altri preti “sociali".. “Negli anni ‘80 – è il racconto di don Raffaele - ero giovane curato a Vobarno e assistevo alla caduta di qualche giovane nella ragnatela della droga e raccoglievo le preoccupazioni dei genitori. Insieme cominciammo a pensare a come fare fronte a questa situazione”. Con loro decise così di stare il più vicino possibile a questi giovani, ma era un metodo che non funzionava: la droga era un richiamo più potente di ogni proposta. “Dopo l’ennesimo fallimento – ricorda –la mia reazione fu dura, non volevo più saperne, anche se in cuor mio sapevo che quei giovani avevano bisogno di risposte”.

Don Armando Nolli, in quegli anni direttore della Caritas diocesana, lo invitò con un altro gruppo ristretto di sacerdoti, a un incontro proprio sul tema della tossicodipendenza. “C’era anche don Redento Tignonsini – ricorda il parroco di San Benedetto - che chiese se ci fosse uno tra i preti presenti disposto ad accogliere per qualche giorno un ragazzo in attesa che si liberasse un posto in comunità. Istintivamente risposi di sì”. Quando don Raffaele fece ritorno a Vobarno trovò don Tignonsini ad attenderlo con il giovane che doveva ospitare. Si fermò un mese e dopo ne arrivarono altri ancora… Questa presenza stimolò i ragazzi del paese che avevano gli stessi problemi a prendere contattato con don Raffaele. Grazie al rapporto con don Redento molti entrarono in comunità di recupero. “Fu così − continua il suo racconto − che con un obiettore che era in servizio all’oratorio e con altri giovani nacque l’idea di creare una comunità”. Il seme della cooperativa “Ai Rucc e dintorni” era stato gettato. “La mia abitazione divenne la sede della comunità e un vecchio fienile di proprietà del beneficio parrocchiale, che doveva essere alienato per fare posto alla costruzione di abitazioni, venne destinato anche per precisa indicazione del vescovo Foresti (che fu sempre vicino alla comunità, “anche per tutelarci dalle immancabili cattiverie che qualcuno diceva su di noi”, sottolinea il sacerdote, ndr) a stalla degli animali che progressivamente acquistammo”.

“La vita della comunità – continua don Licini – fu facilitata, oltre che dall’appoggio della parrocchia, anche dalla vicinanza che si era creata con don Redento e con gli altri sacerdoti, anche di altre diocesi, che avevano dato vita a iniziative simili: don Ciotti, don Albanesi...”. Erano, per don Raffaele, il segno di una Chiesa che, in nome della carità, si faceva carico di un problema allora pesante, che oggi sembra superato da altre emergenze. Il problema c’è ancora e interpella chi vi ha dedicato parte del suo ministero sacerdotale. “Nella ricerca dell’essenziale a cui siamo chiamati – conclude – non dobbiamo dimenticarci di quella carità che ci ha permesso di dare risposte che ancora oggi continuano a dare frutti”.

MASSIMO VENTURELLI 07 dic 2020 12:58